Cantieri tra prassi esecutiva e storia
L’ambito della ricerca sulle pratiche di esecuzione in prospettiva storica rappresenta un terreno d’incontro particolarmente fecondo per le traiettorie complementari…
BIGLIETTI DISPONIBILI IN PREVENDITA CLICCANDO QUI entro e non oltre le ore 12.00 del 24 settembre
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Andrea De Vitis, chitarra
Il concerto si inserisce quest’anno nella programmazione de “La Campania è Teatro, Danza e Musica”, progetto promosso da ARTEC/ Sistema MED in collaborazione con SCABEC – Società Campana Beni Culturali e Fondazione Campania dei Festival.
Programma
Manuel de Falla (1876 – 1946)
Homenaje pour le tombeau de Debussy
Angelo Gilardino (1941)
Into the rose-garden, in memory of Julian Bream
Heitor Villa-Lobos (1887 – 1959)
Suite populaire brésilienne (versione 1928)
Mazurka-choro, Schottisch-choro, Chorinho, Valse-choro
Enrique Granados (1867 – 1916)
Valses poeticos
Mario Castelnuovo-Tedesco (1895 – 1968)
Tonadilla, Sarabande, Cancion venezuelana, Estudio, Tarantella campana (da Greeting Cards op. 170)
Il programma proposto affronta un profilo importante del repertorio strumentale della chitarra classica, ovvero il dualismo tra le sue radici popolari e il ruolo colto che ha assunto a partire dal Novecento. Questa intrinseca ambiguità rappresenta l’essenza della chitarra ed è evidenziata dalla molteplicità di sfaccettature che caratterizzano il suo repertorio: si parte dal ritmo di habanera utilizzato da Manuel de Falla nel celebre Homenaje, il quale è completamente trasfigurato in chiave drammatica, perdendo ogni connotazione folclorica, per finire con una raffinata tarantella di Mario Castelnuovo-Tedesco, in cui l’elemento ritmico sorregge armonie molto ricercate.
Tuttavia l’ambiguità più evidente è quella che caratterizza la Suite Populaire Brésilienne di Heitor Villa-Lobos, in cui il compositore cerca di accostare la malinconia ed il lirismo del Choro (termine portoghese che significa pianto) al carattere colto di alcune danze di origine europea.
Questo percorso musicale costituisce anche un omaggio al grande chitarrista Julian Bream (scomparso nel 2020), in quanto molti dei brani proposti facevano parte del repertorio più eseguito dal maestro inglese.
Note di Sala a cura di Paola De Simone
In unione e a sostegno del canto dei menestrelli o delle danze di strada come di corte fra le pagine non scritte del Medioevo, o tra le fonti non copiose ma parallele all’impiego nobile del liuto rinascimentale in intavolatura. E fin su, dall’espansione tecnico-espressiva nella stagione romantica all’ulteriore valorizzazione novecentesca della scrittura per chitarra giocata abilmente in bilico fra generi e confini innestando storia e memoria, interpreti e nuovi linguaggi, estrazioni colte e genuinità popolare attraverso una pratica elaborativa spesso utile per radiografare le orme del passato. Vale a dire, osservando il repertorio chitarristico del secolo Ventesimo, una prospettiva analitica primaria che, inserendo codici tecnico-culturali ed espressivi differenti ma appartenenti al medesimo ceppo linguistico-musicale, riproducono, evidenziano e reinventano in soluzione originale stilemi e aspetti sonori portanti di un determinato compositore del passato, remoto o recente che sia, proiettandone l’eredità in dimensione storica, verso esiti futuri.
È infatti da quest’ultimo segmento crono-stilistico che spesso emergono, al pari di uno sguardo a ritroso e allo specchio, l’importanza e la coscienza di alcuni fra i più significativi contributi registrati lungo il corso dell’articolata quanto composita vicenda della letteratura a sei corde, così come in evidenza lungo il prismatico percorso in ascolto costruito intorno ai cardini strutturali di chôro e danza omaggiando al contempo il repertorio di un interprete di riferimento quale il magnifico chitarrista e liutista britannico Julian Bream, scomparso in un non lontano venerdì di piena estate, il 14 agosto 2020. Un elemento lirico portante nella musica strumentale brasiliana, il chôro, assimilabile al lamento ([ˈʃoɾu], in pronuncia figurata scióru, pianto in portoghese, popolarmente variato in chôrinho) e, in realtà, già di per sé strettamente connesso all’elemento coreutico avendo svolto in origine, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, la funzione di catalizzatore fondamentale ai fini del processo di assimilazione e “brasilianizzazione”, con la spinta delle radici ritmiche africane, delle diverse danze europee (valzer, scottish, mazurka, polka) in voga nelle élites salottiere di quel tempo. In organico fra i circuiti popolari di Rio de Janeiro, c’era appunto una chitarra classica più un flauto e un cavaquinho, o chitarra brasiliana; quindi, a seguire, l’apertura ad ulteriori confluenze (dal baião al tango brasileiro) alimentando le vie del samba e della bossa-nova. Tant’è, che Heitor Villa-Lobos ebbe a definire il chôro “l’essenza dell’anima musicale brasiliana”.
La prima delle connessioni in programma propone una pagina spesso presente in repertorio, l’Homenaje pour le tombeau deDebussy, sguardo ammirato dello spagnolo Manuel de Falla per l’avanguardia parigina e al contempo omaggio al compositore del Pelléas et Mélisande scritto nel 1920 per il virtuoso Miguel Llobet, a due anni dalla scomparsa di uno dei massimi esponenti del Novecento musicale francese. È un omaggio scolpito fra il ritmo di habanera evocante il dolore della morte e uno stralcio tematico chiaramente riconoscibile come aggancio all’immaginifico mondo sonoro debussyano, nello specifico, estratto dalla Soirèe dans Grenade. La commissione dell’homenaje “Piece de guitarre ècrit pour le tombeau de Debussy“, effettivamente miliare nella letteratura chitarristica moderna, partì dalla Revue Musicale che, su espressa richiesta del direttore Henry Prunières, propose a una rosa di compositori (tra i quali anche Stravinskij, Ravel e Bartók) di scrivere un brano per omaggiare la morte di Debussy. Per la stessa rivista de Falla stilò anche un saggio commemorativo – Claude Debussy et l’Espange – fra le cui righe esprimeva meraviglia per l’abilità dimostrata da Debussy nell’aver colto l’essenza della Spagna pur non essendovi mai stato personalmente. Alle spalle dei pentagrammi dell’Homenaje c’è inoltre da considerare che durante il suo soggiorno parigino, fra il 1907 e il 1914, de Falla ebbe a godere della stima e dell’amicizia dello stesso Debussy, con fitta osmosi di notizie storiche e linguistiche sul cante jondo.
Ancora al genere in memoriam appartiene un brano di fattura recentissima. Si tratta di Into the rose-garden, in memory of Julian Bream scritto dal chitarrista, compositore e musicologo Angelo Gilardino su progetto e richiesta dell’interprete qui in ascolto, Andrea De Vitis. Un ricordo intenso e un ringraziamento speciale per l’immensa eredità lasciata, si direbbe, a taglio fra le quattro dimensioni del tempo (passato, presente, futuro ed eterno), così come ci ricordano i versi – qui evocati in filigrana – del poeta e critico statunitense T.S. Eliot dal primo dei Four Quartets, il poema Burnt Norton, creato più o meno in coincidenza e in affinità con la stesura del più noto dramma teatrale Assassinio nella cattedrale, nel 1935. Idealmente siamo in una casa di campagna disabitata, nel Gloucestershire, visitata l’anno prima dallo scrittore in compagnia dell’amica Emily Hale e rievocata attraverso le ombre raffinate di un vissuto felice, fra luoghi e oggetti come il giardino di rose, le siepi, i viali, il mare, il laghetto, il vaso cinese, un violino. Eccone il passaggio che dà il titolo e la chiave alla pagina musicale: “Footfalls echo in the memory / Down the passage which we did not take / Towards the door we never opened / Into the rose garden” (Passi echeggiano nella memoria / lungo il corridoio che non prendemmo / verso la porta che non aprimmo mai / sul giardino delle rose). Come a dire, uno sguardo sul “come poteva essere” entro la convergenza di un circolo temporale che rende eternamente presenti il passato, il momento attuale e il futuro. E analogamente sui pentagrammi presentati nel novembre 2020, fra prima e seconda parte, c’è come un doppio sgiardo e ricordo sul Bream che sfiora le corde di un liuto, quindi di una chitarra, come a consegnare la sua visione del passato musicale e del presente alle generazioni future, ora riecheggiando le note di un’aria barocca, ora le sonorità moderne di Lennox Berkeley e Malcom Arnold.
Al chôro e dunque al fulcro della musica popolare e urbana brasiliana del primo Novecento, con relativi nessi coreutici eurocolti, rinvia invece la Suite populaire brésilienne di Heitor Villa-Lobos, riproposta nella originale versione del manoscritto datato 1928, scoperto nel 2005 presso gli archivi della stessa casa editrice Max Eschig che nel 1955 aveva pubblicato la stesura del 1948, l’unica fino a quel momento conosciuta e divulgata. La silloge, formata da alcune pagine giovanili nate dalle esperienze performative del compositore in qualità di esecutore negli ensemble di chôro, dunque scritte durante il quadriennio 1908-1912 (ad eccezione del Chôrinho, risalente al 1923 e al soggiorno di Villa-Lobos a Parigi), consta di quattro brani, Mazurka-chôro, Schottisch-chôro, Chôrinho e Valse-chôro, ampiamente rimaneggiati a seguire nel manoscritto curato dalla moglie Arminda Neves d’Almeida. Le differenze più vistose fra le due stesure, nel probabile tentativo di legare assieme brani appartenenti a momenti creativi differenti, riguardano la sostituzione della Valse-Chôro (rimasto inedito) e del Chôrinho con una diversa Valsa-Chôro e una Gavotta-Chôro, la modifica di talune armonie, l’aggiunta di una coda “Final” alla Mazurka-Chôro e lo spostamento in chiusa del Chôrinho, più moderno nelle armonie e nelle reiterazioni in stile Ètudes, con copyright non a caso successivo di un anno rispetto all’edizione del ‘55.
Lo schema strutturale dei brani, ad eccezione del Chôrinho (ABCA’), segue quello del rondò (ABACA), sul piano espressivo frequente è la presenza di screziature malinconiche mentre i profili ritmici e armonici si polarizzano fra scarti sincopati, accordi arpeggiati o paralleli accanto a suoni di corde a vuoto con sorprendente effetto “sporco” dissonante, così come nel primo e nel penultimo brano. Sul fronte dello stile non mancano inoltre le inflessioni chopiniane, in special modo nella Mazurka-Chôro d’apertura, laddove il piglio più disinvolto della Schottisch sembra invece alludere alla prassi dei chôros eseguiti al clarinetto.
A dispetto del titolo che richiama la chiara fascinazione del mondo romantico di Chopin e di Schumann, i tardoromandici Valses Poéticos op. 10 di Enrique Granados ostentano con orgoglio tinta e tempra prettamente di Spagna. Sono otto cammei scritti da un autore appena ventenne, negli anni 1886-87 a Barcellona, con dedica al compositore, pianista (perché pianistica è l’opera, successivamente elaborata anche in versione per chitarra) e “mi amigo” Joaquín Malats. Una sorta di Suite di valzer, amatissimi dallo stesso autore che ebbe infatti ad eseguirli assai di frequente nel corso della sua luminosa carriera concertistica, fino all’ultima esibizione newyorkese avvenuta del 1916, a pochi giorni della morte. E molto amati furono anche da Julian Bream che, nei primi anni Ottanta, ne sottolineò il passaggio attraverso gli stili del tempo con queste parole: “The same spirit [eighteenth century] graces the more urbane Valses Poéticos, particularly so in the dupe of rythm introduction declaimed with Scarlattian panache. Thereafter the valses reflect the veiled hues of other times, some grave, some gay, gentle whispers of Der Rosenkavalier and Valses Nobles et Sentimentales but unerringly conceived nevertheless in a very original way”.
In apertura, c’è una brevissima quanto vivace Introduzione e, a seguire, prendono forma i diversi Valzer, ciascuno singolarmente ben caratterizzato per titolo e taglio ritmico-dinamico: il Vals Melódico, intensamente lirico; il Vals Apasionado, giocato “con molta fantasia” sulla contrapposizione fra legato e staccato, fuoco vivo e pianissimo; il Vals Lento, in più intima e dolente tonalità minore; il Vals Humorístico di stile giocoso e a contrasto, sia pur saldato nella medesima tonalità di Si bemolle maggiore, con il seguente Vals Sentimental, di tenera cantabilità; il Vals Mariposa, che in spagnolo significa “farfalla”, dal movimento veloce e leggero e, infine, il Vals Ideál, trascinante, perfetto per siglare in chiusa e ad anello la raccolta riprendendo il tema cantabile del primo Valzer.
Al termine e in linea con gli omaggi cesellati tra gli schemi del canto e della danza, una selezione dalle “cartoline d’auguri”, Greeting Cards op. 170, di Mario Castelnuovo-Tedesco, compositore tra i più raffinati del primo Novecento italiano, allievo di Pizzetti per la composizione, pianista, critico musicale ed anticonformista etichettato come il più giovane (e a torto finito tra i minori) della cosiddetta Generazione dell’Ottanta, restando a lungo in ombra e ai margini del panorama musicale. Fiorentino sensibile e spirito colto nato da un’agiata famiglia di banchieri di origini ebraiche, vissuto in parallelo alle due Grandi Guerre e sotto il peso delle leggi razziali che, il 13 luglio 1939, lo costringono a lasciare la sua Italia salpando con la famiglia dal porto di Trieste per fuggire, necessariamente e definitivamente, in America. Lui, finalmente apprezzato in patria ma ebreo capitato nel periodo sbagliato della storia d’Europa, deve ricominciare daccapo, continuando a scrivere tanta musica assoluta e, per sbarcare il lunario, anche per il grande schermo, senza neanche firmarne in studio le partiture. Un esempio? La colonna sonora per il cult di René Clair da Agatha Christie “And Then There Were None” (Dieci piccoli indiani). Dal catalogo chitarristico, cui deve gran parte della sua notorietà grazie alle interpretazioni di Andrés Segovia, particolare rilievo assume la lunga serie delle Greeting Cards scritta fra il 1954 e il 1967, svettando con i suoi tanti piccoli ritratti sonori dedicati ai musicisti a lui più cari (dal direttore André Previn a tanti interpreti, Oscar Ghiglia e Angelo Gilardino compresi) realizzati trasformandone, alla maniera romantica di Schumann, i nomi in rispettivi temi musicali alla luce delle costanti del suo stile, dunque di una particolare felicità delle elaborazioni motiviche e timbriche, del nitore linguistico, della sostanziale aderenza alla sintassi tonale. Nella selezione in programma, si ascoltano la Tonadilla (n. 5, del 1954) “sur le nom de Andrés Segovia”, Sarabande (n. 36, di dieci anni più tardi) sul nome di Rey de la Torre, Cancion venezuelana (n. 40) sul nome di Alirio Diaz ed Estudio (n. 42) sul nome di Manuel López Ramos, entrambi del 1966. Si conclude con la travolgente Tarantella campana (n. 50, del 1967) sul nome di Eugene Di Novi(Eugene Salvatore “Gene” DiNovi), pianista newyorkese di Brooklyn con sangue italiano del Sud, cantante e compositore per film, attivo al fianco di grandi nomi del jazz quali, fra i tanti, Benny Goodman (asso del clarinetto Swing e, come Castelnuovo-Tedesco, anche lui di origini ebraiche), Artie Shaw, Lester Young e alle voci magnifiche di Anita O’Day, Lena Horne.
Andrea De Vitis
“Sottile ed elaborata, è la visione interpretativa di Andrea De Vitis (…). Giovandosi dell’accettazione di un sapere e di un fare ereditati dal passato, De Vitis costruisce le proprie interpretazioni eludendo ogni ricetta e ogni modello chitarristico: se proprio volessimo cercargli delle affinità dovremmo sconfinare su territori pianistici. Comunque, tutto quello che il suo suono trasmette non si arresta mai alla categoria del bello e del piacevole, ma punta sempre a tracciare forme disegnate con estrema chiarezza. Questa sua capacità non occupa quindi soltanto l’attimo fuggente, ma si estende su tutto il brano, facendone un piccolo edificio dove ogni oggetto sonoro ha un proprio posto e una precisa funzione in movimento”. (A. Gilardino, Suonare News, 2020)
“Andrea De Vitis è uno di quegli interpreti che conquistano pubblico e giuria per la nitidezza ad alta definizione del suo modo di suonare, per il formidabile controllo della dinamica e dell’agogica e per la chiarezza con cui afferma il proprio pensiero, traducendo nel contempo quello dell’Autore” (F. Biraghi, Il Fronimo, 2016).
“Ascoltando De Vitis viene da pensare che questo chitarrista possiede allo stesso tempo lo scatto e la brillantezza tecnica della giovane età, unita al respiro, al controllo e alla maturità artistica di un interprete con trent’anni di carriera alle spalle” (C. Zocca, L’Arena, 2018)
Andrea De Vitis (1985) è considerato a livello mondiale uno dei più interessanti chitarristi della sua generazione.
Ha studiato con Leonardo De Angelis, Paolo Pegoraro, Adriano Del Sal, Arturo Tallini, Frédéric Zigante, Oscar Ghiglia, Carlo Marchione, Pavel Steidl.
La sua intensa attività concertistica lo ha portato ad esibirsi come solista in prestigiose sale da concerto in tutto il mondo (Europa, Usa, Messico, Cina, Russia) con grande successo di pubblico e critica, collaborando con orchestre quali Aukso Kameralna (Polonia), Anima musicae (Ungheria), San Pietroburgo Capella State Orchestra (Russia).
Ha vinto 40 premi in prestigiosi concorsi internazionali. Tra i più importanti: “Guitar masters” Wroclaw, Iserlohn international competition, Certamen “Julian Arcas” di Almerìa, Forum gitarre Vienna, Concorso internazionale di Gargnano, Guitar Foundation of America, Concorso internazionale “Pittaluga” di Alessandria. Come riconoscimento dei suoi meriti artistici, nel 2013 gli è stata conferita la “chitarra d’oro per la giovane promessa” nell’ambito del Convegno internazionale della chitarra di Alessandria.
E’ molto richiesto come docente nell’ambito di prestigiosi festival musicali (Maastricht Conservatorium, California State University, Copenhagen Royal Academy of Music, Forum Gitarre Wien, Staatliche Hochschule fur Musik und Darstellende Kunst Stuttgart, Koblenz guitar Festival); inoltre è spesso invitato a tenere
masterclasses e seminari nei Conservatori italiani (Bologna, Mantova, Bari, Campobasso, Adria, Roma, Perugia, Benevento, Fermo).
Dal 2013 svolge attività didattica presso i Conservatori italiani (Potenza, Bologna, Vibo Valentia).
Nel 2015 è stato pubblicato il suo CD di esordio “Colloquio con Andrés Segovia” (Dot Guitar), il quale ha ricevuto entusiastiche recensioni sulla stampa specializzata, in Italia e all’estero. Nel 2020 la casa discografica canadese Naxos ha pubblicato il suo doppio cd dedicato all’integrale della musica per chitarra di Alexandre Tansman, registrato con una chitarra Daniel Friederich del 1963. Entrambi i prodotti (“Colloquio con Andrés Segovia” e “Tansman complete music for guitar”) sono stati premiati con 2 chitarre d’oro nell’ambito del Convegno internazionale della Chitarra (Alessandria 2016, Milano 2020).
Nel 2020 pubblica, nuovamente con l’etichetta Dot Guitar, un cd dedicato a musiche di H- Villa-Lobos e M. Ponce.
Andrea De Vitis è “D’Addario artist” dal 2015.
Reggio Emilia
Padova